Articolo scritto per il N°2 della rivista Microfinanza
(http://rivista.microcredito.gov.it)
Look to this picture and to that, scriveva Karl Marx alla moglie in una lettera del 21 giugno del ’56 da Manchester; così anche per il credito: guarda a questo credito e all’altro. Dove non c’è credito bancario, c’è, infatti, un altro credito; è cosa buona quando al quadro del credito bancario tradizionale si accosta l’altro quadro del credito offerto dalle banche innovative, dagli intermediari finanziari; meno buona, quando il quadro differente è quello dell’usura.
Partiamo da qui: gli intermediari che sperimentano modelli di business alternativi dedicati alla finanza inclusiva svolgono una funzione etica: circoscrivono il raggio d’azione dei canali finanziari illegali, pronti a inocularsi nello spazio non occupato dalle banche.
Il microcredito e la finanza inclusiva, è ormai noto, sono strumenti utili a finanziare idee imprenditoriali che frequentemente si traducono in opportunità occupazionali concrete ma che, spesso, risultano marginali per i canoni di valutazione delle banche tradizionali. La ridotta appetibilità commerciale dei clienti del microcredito, i giudizi di affidabilità negativi attribuiti loro dai modelli di rating suggeriti dalle regole di Basilea, i costi operativi elevati dei programmi microcreditizi – rivolti a numeri ridotti di beneficiari e basati su importi minimi – sono tra le principali cause di una concreta difficoltà che le banche incontrano nell’implementare iniziative di finanza etica ed inclusiva. In questo vuoto dell’offerta del mercato microcreditizio, gli intermediari finanziari e le fondazioni bancarie possono giocare un ruolo determinante.
Ora, per così dire, se “sotto la panca la banca tradizionale crepa”, perché stessa sorte non dovrebbe riguardare gli altri intermediari finanziari? In questo numero portiamo testimonianza di come alcune tipologie di istituzioni – intermediari finanziari social-oriented e fondazioni bancarie – rispondano alla domanda di finanza inclusiva nel rispetto delle condizioni di sostenibilità economica.
Partiamo dal principio, che poi è la fine: ovvero l’inizio della crisi. Le banche non erogano più credito; più correttamente, assistiamo ad una restrizione di credito da parte del canale bancario tanto significativa, quanto complessa nelle determinanti che la spiegano. Sembra paradossale a molti – ed alle stesse autorità di politica monetaria – che l’ingente liquidità messa a disposizione delle banche europee da parte della BCE non sia stata utilizzata dalle banche stesse per erogare credito ma, piuttosto, sia rimasta intrappolata negli stessi
canali di politica monetaria, sull’interbancario e in forme di investimento alternative più liquide dei prestiti.
Il tanto abusato termine “credit crunch” corrisponde ad una precisa concettualizzazione e non merita di essere utilizzato in maniera impropria dai numerosi opinionisti economici in giro per l’Europa. Si ha “credit crunch” solo quando il minor credito erogato è indipendente, sia dalla quantità di credito richiesta dall’impresa, sia dal suo standing creditizio, o dal settore merceologico di appartenenza.
La restrizione del credito può assumere, pertanto, connotazioni diverse dal “credit crunch”; l’esistenza di asimmetrie informative, ad esempio, può determinare una politica dei tassi che si traduce in una sostanziale discriminazione tra beneficiari: si parla, in tal caso, di “razionamento del credito” o “credit rationing”. Quando, invece, è il merito di credito del cliente o del settore merceologico a determinare un diniego di affidamento, è più corretto parlare di “selezione finanziaria” o “credit selection”.
Non è questa una semplice speculazione letteraria; al contrario: comprendere quale connotazione assume il fenomeno della restrizione di credito, significa rintracciarne le determinanti e posizionarsi in condizione ottimale per ricercare soluzioni.
Mettendola giù in modo semplice, stando alla “conception” suggerita in letteratura, il “credit crunch”, si configura come una riduzione del credito non direttamente imputabile alle banche, ma piuttosto all’accresciuto rischio sistemico (leggasi: agli effetti della crisi). Se, quindi, in questi anni difficili, stessimo assistendo ad un fenomeno di “credit crunch”, le banche non porterebbero alcuna responsabilità diretta e, per giunta, sarebbe pressoché inutile continuare ad inondarle di liquidità. Se, al contrario, si stesse sperimentando un processo di “razionamento del credito” o di “selezione finanziaria”, ecco che le determinanti di una restrizione del credito andrebbero ricercate anche nelle inefficienze dei mercati del credito, nelle politiche gestionali delle banche, nei meccanismi di vigilanza che ne influenzano la gestione.
“Nuoto nel vuoto”, recita il Poeta (Edoardo Sanguineti nel suo bellissimo “Stracciafoglio”), e, come lui, le autorità monetarie e di vigilanza: la verità è che risulta complesso distinguere, tra le diverse accezioni di restrizione creditizia, quale sia quella più significativa; è difficile perché si tratta di una valutazione qualitativa e, per questo, nessuno è attrezzato, pur essendo tutti inondati di dati: la quantità non influenza la qualità, in questo caso (questa essendo tra le poche eccezioni alla regola).
Occorre, quindi, per risolvere il problema, agire su tutte le variabili che costituiscono le determinanti della restrizione del credito e che sono riconducibili, sia al “credit crunch”, sia al “razionamento del credito” che alla “selezione finanziaria”. Intanto, però, mentre qualcuno (gli opinionisti? I tecnici opinionisti? Gli intellettuali tecnici? I politici?) tenta di ricucire le fila di ipotetiche azioni correttive, agendo sulle variabili macroeconomiche (obiettivo: circoscrivere gli effetti della crisi), sui requisiti di vigilanza bancaria (obiettivo: eliminare i vincoli prociclici che rendono eccessivamente costoso per le banche il credito
alle pmi), sui principi etici delle mission finanziarie (obiettivo: ricondurre le politiche del credito bancario entro perimetri che considerino non solo il profitto ma anche la crescita e l’economia reale), il credito s’ha da fare.
“Qui si fa credito o si muore!”, ecco il nuovo slogan finanziario dell’unità d’Italia. Questa nuova “unità d’Italia” passa anche dagli intermediari finanziari specializzati e dalle fondazioni bancarie. Gli intermediari, in particolare, per loro natura, hanno strutture più leggere delle banche tradizionali, costi operativi minori, regole di vigilanza meno invasive ed articolate, maggiore possibilità di focalizzare la propria mission, maggiore flessibilità nell’identificare azioni e partnership a livello territoriale.
In questo numero, presentiamo tre esperienze diverse: quelle di due intermediari, PerMicro e MxIT-Microcredito per l’Italia, in grado di alimentare iniziative microimprenditoriali ad alto impatto occupazionale; quella della Compagnia di San Paolo, una fondazione bancaria attiva sul territorio con importanti progetti di finanza inclusiva.