Il Prét-a-Porter delle Banche

Viaggio nell’outlet del sistema bancario italiano

[La risoluzione delle banche venete è stata realizzata con la procedura di liquidazione italiana; maggiore possibilità di curare in casa la protezione degli obbligazionisti ma rimangono i nodi evidenziati dal bail in: 1 euro il prezzo delle banche cedute ed incentivi pubblici alla cessione sempre più articolati: è vero bail in?]

 

Un nuovo comunismo bancario?

Con la “soluzione-risoluzione” delle banche venete il dato è ormai ufficiale: in Italia, sulla base delle ultime transazioni, il prezzo medio di una banca è pari a 1 euro. Con l’ennesimo decreto “salva banche”, che incornicia la cessione di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca ad Intesa San Paolo al prezzo, appunto, di 1 euro, è ufficialmente istituito l’outlet del sistema bancario italiano.

Gli inguaribili ottimisti potrebbero festeggiare la nascita di un mercato prèt-a-porter delle banche, grazie al quale ogni cittadino potrà realizzare il sogno di diventare banchiere. Eh si, perché anche chi vive al limite della soglia di povertà assoluta[1] (fissata per il 2015 dall’Istat a 819 euro per i residenti al Nord, ed a 735 e 552 euro, rispettivamente per i residenti al Centro ed al Sud) potrebbe acquistare, con il proprio reddito limitato, centinaia di banche. Un prezzo così a buon mercato dovrebbe suggerire all’Istat di inserire “la banca” nel paniere per il calcolo dell’indice dei prezzi al consumo.

Per contro, considerando che in Italia le banche sono 522 (di cui 393 non appartenenti a gruppi), altrettante persone, impiegando solo 1 euro del proprio reddito, potrebbero regalarsi la soddisfazione di una “banca ad personam”. L’Italia vanterebbe, così, il più democratico dei sistemi finanziari al mondo: un azionariato di natura popolare darebbe vita ad una finanza dal basso senza precedenti, al punto che anche il noto “banchiere dei poveri” di Yunus impallidirebbe. Da un Paese di allenatori, ad un Paese di banchieri: il dado è tratto.

I fatti in fila

E’ davvero così o qualcosa non torna? Proviamo a mettere ordine ricostruendo i caratteri essenziali dei diversi salvataggi bancari avvenuti in questi mesi. Tre casi hanno fatto scuola, nel bene e nel male. Il 10 maggio scorso si è perfezionata la cessione, ad UBI Banca, di Nuova Banca delle Marche, Nuova Banca dell’Etruria e del Lazio e Nuova Cassa di Risparmio di Chieti; nel marzo 2017, è stato stipulato il contratto per la cessione di Nuova Carife a BPER Banca; il 25 giugno, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono state cedute ad Intesa San Paolo.

Cosa hanno in comune queste operazioni? E’ presto detto: a) l’aderenza alla volontà del legislatore comunitario di limitare, e postergare, l’intervento statale in favore del contributo dei privati (bail-in); b) lo schema operativo utilizzato, che prevede la separazione della banca in crisi in due banche, quella con gli attivi di buona qualità (“good bank”) e quella cattiva in cui far confluire i crediti deteriorati (“bad bank”), percorrendo soluzioni alternative – ma comunque interconnesse – per le due entità; c) l’aderenza all’esigenza delle banche acquirenti di limitare l’investimento massimizzando i ritorni a medio termine dell’acquisizione; esigenza sostanziata, principalmente, nell’adozione di un prezzo figurativo di 1 euro fissato per la cessione delle good bank e dall’impegno di risorse statali per agevolare la cessione delle good bank, da un lato, e lo smaltimento dei crediti deteriorati presenti nel bilancio delle bad bank, dall’altro.

La fila dei mis-fatti

Sul primo aspetto appare ormai evidente che l’intervento statale è stato soltanto postergato ma, senza dubbio, non limitato. Il ritardo nella definizione di soluzioni, e l’incertezza di inquadramento delle singole operazioni di salvataggio, non hanno certamente agevolato la razionalizzazione dell’intervento pubblico. Appare chiaro che “postergazione” e “limitazione” dell’utilizzo di risorse pubbliche sono risultati, alla prova dei fatti, obiettivi dicotomici.

Il ricorso allo schema delle banche gemelle – le Caino ed Abele della finanza – appare viziato da alcune false verità che la cronaca recepisce come scontate: (i) non è un modello nuovo perché già usato in passato, (ii) non è un modello che rappresenta, di per sé, la soluzione. La segregazione delle attività deteriorate in una Caino bank – la “bad bank” – non significa smaterializzare gli attivi in questione che, al contrario, continuano a dare segni di vita ed a produrre effetti in termini di distruzione o creazione di valore. La prova dei fatti ha evidenziato come non basti creare un veicolo ad hoc se non si sono programmate strategie utili, e soprattutto realizzabili, per gestire gli attivi di cattiva qualità senza alimentare un’iniqua distribuzione della ricchezza (più specificamente, nei casi in questione, a vantaggio degli attivissimi operatori del mercato dei non performing loans ed a discapito degli obbligazionisti subordinati).

Rispetto alle Abele bank – le “good bank”- non si può escludere che le banche acquirenti abbiano oggettive ragioni per fissare al ribasso il prezzo di acquisto: l’acquisizione comporta richieste di capitale aggiuntivo da parte delle autorità di vigilanza ed oneri derivanti dalla gestione della rete, del personale e degli attivi ereditati. Due circostanze, tuttavia, contrastano con l’adozione di un prezzo figurativo di 1 euro. Anche le operazioni di concentrazione ordinarie portano con sé, nell’immediato, costi e criticità gestionali, insieme ad auspicati vantaggi nel medio periodo; eppure, di regola, non vengono definite a prezzi figurativi, quantomeno non così irrisori. Le operazioni di cessione delle banche in crisi registrate in questi mesi hanno riguardato la sola “parte buona” delle banche cedute – quindi assimilabili ad operazioni di concentrazione ordinaria tra le meno sconvenienti – e, inoltre, sono state sempre accompagnate dall’intervento dello Stato, sia a protezione di rischi emergenti dall’attivo ceduto, sia a copertura di oneri quali quelli relativi al costo degli ammortizzatori sociali riferiti alla razionalizzazione degli esuberi di personale. Perché, dunque, nonostante l’oggetto della cessione sia riconducibile alla “good bank”, e le operazioni contemplino diverse forme di supporto pubblico, si registra uno sconto così brutale sul prezzo? Una banca sana vale davvero 1 euro? Pur non volendo attribuire alcun valore agli attivi di una “good bank”, ed alle possibili sinergie da concentrazione, la sola licenza bancaria vale davvero 1 euro?

I danni collaterali

E’ evidente che la risposta a queste ed altre domande non risiede in un perimetro tecnico, ma è da rintracciare nel complesso quadro politico-istituzionale-relazionale che si è costruito intorno alla risoluzione delle crisi bancarie.

L’approccio del case by case adottato dalle autorità europee nell’interpretare ed applicare la nuova normativa sulle risoluzioni bancarie ha creato zone d’ombra negli intrecci tra controparti: nello specifico, tra autorità comunitarie e Governi nazionali, ma anche tra Governi ed investitori privati.

Nelle relazioni tra Commissione UE, autorità competenti e Governi nazionali pesa l’incertezza sul perimetro di riferimento in cui collocare le singole operazioni. Nel caso del primo “decreto salva banche” adottato dal Governo italiano, l’orientamento della Commissione UE di considerare l’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi una forma di aiuto di Stato ha ostacolato la tradizionale “via italiana” alla soluzione delle crisi, imponendo di contestualizzare la soluzione nel perimetro della Direttiva europea (Bank Recovery and Resolution Directive – BRRD); nel recente caso delle banche venete, il Single Resolution Board ha dichiarato che, pur essendo in dissesto od a rischio di dissesto, la situazione degli istituti in questione non presenta elementi utili all’attivazione del processo di risoluzione europea, e quindi la questione può essere gestita secondo le procedure di insolvenza italiane. Non lo comprenderanno facilmente gli obbligazionisti subordinati delle prime banche poste in risoluzione, per le quali l’applicazione della BRRD è stata addirittura anticipata rispetto ai tempi di entrata in vigore.

L’adozione delle nuove regole di risoluzione sta, inoltre, progressivamente concentrando il potere negoziale in mano ai pochi, grandi gruppi bancari. L’urgenza di trovare, in tempi rapidi, soluzioni efficaci, si contrappone alla necessità di rendere l’intervento pubblico rispettoso degli aiuti di Stato. In questo scenario, se i Governi sono costretti a sollecitare un rapido soccorso degli investitori privati, questi ultimi non possono che coincidere con i grandi gruppi bancari; gli unici in grado di intervenire nei processi di salvataggio senza subire impattanti critici sull’adeguatezza del proprio capitale. A prescindere dall’adozione di meccanismi di risoluzione – comunitari o nazionali – tale situazione non contribuisce a sostenere le ragioni dei Governi – ed auspicabilmente dei risparmiatori – rispetto a quelle degli investitori, svilendone la forza contrattuale sui tavoli negoziali.

L’operazione Intesa-banche venete

In quest’ottica, è facilmente intuibile che, nel caso specifico dell’acquisizione effettuata da Intesa San Paolo, un peso importante nella determinazione del prezzo di cessione di 1 euro, e delle altre garanzie richieste allo Stato, sia da ricondurre al contributo che Intesa è stata chiamata a versare nel Fondo Atlante, a valere su salvataggi passati, in corso, e potenzialmente futuri. Così come è facile immaginare che pari rilevanza abbia avuto anche il prestito da 5,3 miliardi concesso da Intesa alle bad bank venete, remunerato all’1%, e comunque garantito dallo Stato. Se i privati sono chiamati in gioco, giocano con le loro regole, che sono note e prevedibili e, nella loro prospettiva, comprensibili e, inevitabilmente, riconducibili a logiche di scambio. Se da un lato devono contribuire al salvataggio, dall’altro cercano di ottenere margini di rientro dell’investimento abbattendo i costi e riducendo l’esposizione ai rischi. Così vanno inquadrati i circa 3,5 miliardi di fondi pubblici richiesti ed ottenuti da Intesa per coprire la richiesta di patrimonio aggiuntivo derivante dall’acquisizione, i circa 1,2 miliardi di contributo pubblico per far fronte ad oneri di ristrutturazione, le garanzie pubbliche per circa 12,4 miliardi prestate a fronte di oneri e rischi diversi, in cui compaiono anche circa 4 miliardi a copertura di un possibile riacquisto da parte dello Stato di attivi ad alto rischio.

Il gioco di contropartite evidenzia come sia poco realizzabile, nella prassi, un concetto di “bail in in purezza” e mette in evidenza la contraddizione intrinseca tra la volontà del legislatore europeo e la realtà di funzionamento dei mercati. Nonostante tutto, nell’ottica della stabilità e della protezione dei risparmiatori, l’intervento diretto dello Stato, che oltre alle garanzie sulla “good bank” si fa carico dei crediti non performing segregati nella bad bank e della loro gestione, rimane comunque doveroso. Meglio, se tale intervento può anche essere giustificato dalla possibilità, per lo Stato, di rientrare delle attività non performing ed ottenere rendimenti a medio termine (tutti da verificare) rendendo l’operazione economicamente sostenibile. Non è, quindi, la struttura dell’operazione il centro della questione, quanto la misura delle varie poste in gioco, di cui il prezzo figurativo di 1 euro e l’ammontare delle varie garanzie statali sono lo specchio.

L’operazione di cessione delle banche venete ha previsto elementi di protezione statale aggiuntivi rispetto agli schemi precedenti: il principale, quello riferito al diritto di retrocessione allo Stato, entro il 2020, vantato da Intesa sui circa 4 miliardi di crediti non deteriorati considerati ad alto rischio.

Difficile escludere che, con il procedere dei salvataggi, il mercato non alzi la posta; sarebbe strano, ad esempio, che Agricole Italia-Cariparma, potenziale acquirente nel salvataggio delle Casse di Cesena, Rimini e San Miniato, non faccia richieste in linea con quelle di Intesa.

Il futuro non è più quello di una volta

Le autorità europee ed i Governi nazionali devono produrre uno sforzo congiunto e tempestivo per evitare che l’obiettivo di razionalizzare l’intervento statale non produca l’effetto opposto, confinando lo Stato ad un ruolo negoziale marginale ed aumentando oltre misura il peso dell’intervento pubblico. Postergare l’intervento statale non deve voler dire imbrigliare i Governi in una morsa tra compliance delle regole europee e forze di mercato, espresse dalle grandi banche di rilevanza sistemica. Non é ammissibile “statalizzare” i prezzi delle banche, nazionalizzando solo le perdite, e lasciare i profitti altrove.

Occorre verificare con i numeri che le nuove risoluzioni – schemi comunitari o nazionali che siano – risultino effettivamente meno onerose, per i conti pubblici, delle vecchie procedure nazionali; nello specifico italiano, meno onerose degli schemi di intervento utilizzati dal nostro Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Ad oggi sembra difficile pensarlo. Ma, come diceva il Poeta, “il futuro non è più quello di una volta”.

 

[1] La soglia di povertà assoluta è rappresentata dal livello di spesa mensile che garantisce uno standard di vita minimamente accettabile.

 

Good or Bad?

Il pressing del Governo italiano su Bruxelles ha consenito di adottare le procedere di risoluzione nazionali, che dovrebbero assicurare maggiore libertà di quelle comunitarie nella protezione degli obbligazionisti.

Aumenta l’incertezza interpretativa del quadro normativo: quando una risoluzione rientra nello schema della Direttiva europea e quando in quella nazionale?

Permangono intatti i nodi evidenziati dalla BRRD sulla razionalizzazione dell’impiego di risorse pubbliche: le banche cessionarie chiedono sempre più garanzie statali e, con il succedersi dei salvataggi, la tendenza è quella di un escalation di richieste di protezione: è vero bail in?

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